Due indagini sul campo, nuovi dati e riflessioni sulla “rotta” dell’alta valle di Susa. «In viaggi che durano anni le persone migranti, le reti parentali e amicali subiscono profondi cambiamenti, sia come strategie per sfuggire ai controlli dei confini, sia come sostegno reciproco»: dal coraggio delle donne sole al protagonismo di bambini e ragazzi.
Il viaggio non solo come itinerario in uno spazio geografico, il confine non solo come la linea (o la barriera) che separa due territori. Li ha esplorati un recente lavoro di ricerca sulla frontiera alpina dell’alta valle di Susa, sempre più battuta negli ultimi anni, nonostante i suoi rischi, da migranti e rifugiati che puntano ai Paesi del centro e del nord Europa dopo aver superato gli stenti dei Balcani e del Mediterraneo centrale.
L’indagine Abitare il cammino: un’analisi longitudinale delle configurazioni familiari tra le persone in transito lungo il confine italo-francese, pubblicata nei Working papers di FIERI, parte da un dato-chiave, quello della lunga durata dei viaggi dei migranti e rifugiati che risalgono fino al paese di Oulx: in media, dai due ai sei anni, dopo che queste persone sono fuggite soprattutto dall’Afghanistan e poi dall’Iran, dalle zone curde di Irak, Iran e Turchia, dal Pakistan, dal Maghreb, dall’Africa subsahariana.
«Durante questo periodo di mobilità forzata e sradicamento protratto, fatto di improvvise accelerazioni e lunghe soste – scrivono gli autori -, le persone migranti camminano, fanno figli, crescono, si trasformano. In questo rapporto di ricerca vogliamo evidenziare come in questi processi trasformativi che accompagnano il cammino anche le configurazioni delle reti parentali e quelle amicali subiscano profondi cambiamenti e vengano costruite domesticità originali, sia come strategie per sfuggire ai controlli dei confini e quindi proseguire il viaggio, sia come sostegno reciproco».
Di per sè l’indagine (a cura di Piero Gorza del progetto OnBorders, Nicola Montagna della Middlesex University di Londra, Rita Moschella di OnBorders e Maria Perino dell’Università del Piemonte Orientale e ancora di OnBorders) è il frutto di un lavoro compiuto nel 2021 da ricercatori, attivisti e operatori socio-sanitari ed è stata realizzata con circa 80 interviste, osservazioni, reportage fotografici e video, testimonianze orali, messaggi Whatsapp e “diari di campo“. Ma raccoglie idealmente tre anni di impegno, osservazione e concreto affiancamento delle persone a Oulx.
Le storie/ Leila continua da sola“Il ‘fare famiglia‘ lo abbiamo visto anche nelle donne che seguono i mariti, partono da sole oppure con un altro uomo, e negli uomini che si sono separati in partenza o durante il cammino. Questi cambiamenti nelle relazioni familiari e nei rapporti di genere emergono dai racconti delle donne che abbiamo incontrato. Mona, Afghanistan, aveva passato con i bambini il confine croato, mentre il marito era rimasto bloccato in Bosnia. In Croazia ha chiesto asilo ed è riuscita a ottenere che lui la raggiungesse. Mentre Fahime, Iran, dalla Slovenia è riuscita, da sola con i bambini, a raggiungere il marito in Italia. Durante il cammino può succedere che ci si perda, come Leila, Afghanistan, separata dal marito in Bosnia, che non sa più dove sia, non sa se si ricongiungeranno, non hanno più contatti, ma lei continua da sola.” (da “Abitare il cammino”) |
Nel solo 2021 sono passate da Oulx 412 famiglie, soprattutto afghane e iraniane. Ma le persone “in transito” contate nell’anno fra la casa cantoniera occupata del paese (sgomberata a marzo) e il rifugio Fraternità Massi sono 10.369 (dati raccolti dagli operatori di Medici per i diritti umani impegnati sul campo).
Nei primi cinque mesi di questo 2022, invece, sono state accolte al Fraternità Massi 1.814 persone, circa mille in meno dello stesso periodo del ’20 (con l’arrivo insolito ad Oulx, a maggio, di un gran numero di migranti sbarcati in Italia direttamente dalla Turchia: 250 su un totale di 725 accolti). Però è rimasto costante il numero di famiglie: 99 contro le 100 del 2021. Mentre sono raddoppiati i minori non accompagnati, 282 sempre fra gennaio e maggio di quest’anno.
Di nuovo costante il numero di respingimenti registrati ali varchi del Monginevro e di Bardonecchia, 1.362 contro i 1.378 dell’anno precedente. Ben due, invece, le vittime dello scorso inverno, registrate a gennaio a Oulx e a Modane. Si aggiungono alle sei che si sono verificate fra il 2018 e il 2021 tra l’alta Valsusa e i versanti di Modane e Briançon.
«Mentre la stragrande maggioranza delle persone riesce, sia pure tra mille difficoltà, ad attraversare con successo il confine, evidenziando ulteriormente l’assurdità di queste tragedie», questi episodi «ci mostrano quanto anche i confini terrestri, non solo quelli marittimi, possano essere mortali. Una caratteristica che non è data dalla loro conformazione naturale, ma è piuttosto il risultato della securizzazione dei confini».
Sui sentieri e i boschi del versante francese del Monginevro, la frontiera oggi è presidiata con militari armati, droni, rilevatori ai raggi infrarossi, camionette e motoslitte.
Le storie/ È l’ora dei ragazzini“Anche i bambini e gli adolescenti divengono i protagonisti del viaggio perché sono loro che comunicano, e spesso lo fanno in inglese, tracciano e seguono mappe, si propongono come referenti e spesso rivendicano questo ruolo anche nei confronti dei genitori. Radin, 14 anni, nel campo in Grecia dove era stato bloccato diverso tempo con la sua famiglia, aveva studiato l’inglese e il greco, di cui si era appassionato. La sua lingua madre è il pashtu, ma parla bene anche il dari e il farsi. Molti si rivolgevano a lui per le traduzioni e in famiglia è su di lui che il padre fa affidamento. Anche Zora, Afghanistan, 13 anni, della sua famiglia è l’unica che parla inglese. Durante il nostro incontro a Oulx ci raccontava l’esperienza del viaggio zittendo il padre più volte, mentre la mamma rideva. Per mettersi in cammino occorrono anche altre competenze: Etara, nove anni, racconta che durante il viaggio dall’Afghanistan era lei che studiava il percorso, decideva lei i punti attraverso cui passare, cosa di cui è molto orgogliosa.“ (da “Abitare il cammino”) |
Val di Susa e non solo: una bussola anche per il “nostro camminare”
“Abbiamo incontrato spesso giornalisti e fotografi (anche famosi) che non hanno esitato a scattare foto di nascosto e riportare informazioni spesso superficiali e inesatte, che danneggiavano prima di tutto le persone già vessate e in cammino. La fretta di raccogliere documentazione e di venderla, rispondendo a ciò che commuove il pubblico e rientra nei format richiesti dalle testate, non aiuta a capire dinamiche e problematiche o, addirittura, è funzionale ad un oscuramento. Tuttavia, per onore del vero, ci sono stati anche giornalisti che hanno svolto con attenzione e professionalità il loro lavoro e le informazioni poi divulgate sono risultate preziose per fare luce su un fenomeno sociale e umano che a volte si vuole occultare e, in altri casi, demagogicamente strumentalizzare…” (dal rapporto La frontiera alpina del Nordovest).
«Troppo spesso l’intervento umanitario fa più bene a chi lo fa che a chi lo riceve…». Queste settimane hanno visto anche l’uscita del rapporto esteso di MEDU La frontiera alpina del Nordovest, una cui sintesi era già stata pubblicata a giugno. Curato dell’antropologo Piero Gorza, uno dei più attenti volontari che operano a Oulx, il rapporto riflette fra l’altro sulle metodologie del «nostro camminare». Gorza si riferisce qui, criticamente, al modo di porsi dell’operatore, del volontario, del ricercatore (e del giornalista) di fronte e al fianco dei migranti “in transito”. E propone sette spunti di riflessione: 1) Corpo, diritto e cura («La cura è prima di tutto riconoscimento che le loro sofferenze hanno responsabili, autori e geografie. In questa accezione ascoltare prima di tutto la loro voce è una scelta politica e metodologica. Al contrario, destoricizzare e de-esperienzalizzare il dolore significa cancellare ancora una volta il nome della sofferenza e farne ricadere la responsabilità su chi è vittima»); 2) “Stare a lato” e “stare in mezzo” («Calpestare i sentieri montani, ripercorrere i tracciati di coloro che passano, è ciò che innanzitutto richiediamo a noi stessi e a chi con noi collabora, per una considerazione semplice: in questi spazi si mette a rischio il corpo, ci si gioca la vita e si muore»); 3) Studiare e operare in contesto sociale («Ci è stato di grande ausilio aver svolto studi comparati sulle frontiere e in particolare sull’area balcanica»); 4) Costruire e rafforzare le reti («Occorre costruire strategie che permettano di trasformare le informazioni raccolte in strumenti per chi cammina e per chi sta “a lato”»); 5) Corpo, cura e frontiera («Le persone a Oulx non si fermano neanche di fronte a patologie gravi», e così «l’attenzione medica deve essere costantemente calibrata alle sfide che le persone vogliono e devono affrontare»); 6) Oltre la cura, la denuncia («Nell’ottica di coniugare salute e diritti, assume una valenza fondamentale l’attività di comunicazione e denuncia»); 7) Comunicazione e divulgazione («Siamo riusciti in questi anni a fornire le informazioni più credibili su ciò che avveniva in frontiera. Per troppi la solidarietà deve essere silenziosa, sommersa, come sommersi e senza nome sono i morti di questa guerra portata avanti da Paesi che tradiscono i principi delle proprie Costituzioni»). Conclude il report di MEDU: «Per terminare queste riflessioni, forse approssimazioni di un cammino che potremmo riassumere con lo “stare a lato” e lo “stare in mezzo”, è doveroso ricordare che ogni scelta è stata condivisa e discussa sia con le persone che gravitano attorno a MEDU sia con tanti volontari e solidali che operano in frontiera. È un metodo che abbiamo sperimentato in questi anni che ci aiuta a discutere le tesi e a capire e a evitare imprecisioni. È, per un verso, il riconoscimento che siamo solo una voce tra le tante e che solo la coralità degli sforzi offre risultato». |
Allegati
Il rapporto esteso La frontiera alpina del Nordovest (MEDU 2022, file .pdf)
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