Una rete europea di organizzazioni della società civile ha denunciato le difficoltà che 33 milioni di cittadini “extracomunitari” regolarmente residenti nell’Ue (fra cui molti rifugiati) incontrano nel formarsi una famiglia o nel farsi raggiungere dai familiari di cui hanno la responsabilità. Nell’appello della rete, frutto anche di un’indagine “sul campo”, si chiede tra l’altro: «Le disposizioni più favorevoli relative ai rifugiati devono essere applicate in ogni caso, indipendentemente dalla data in cui i legami famigliari si sono consolidati o hanno avuto origine».
«Vi sono forme di discriminazione che inducono gravi ritardi, tendenti a divenire cronici e a intensificarsi, nel processo di inserimento delle popolazioni di origine straniera: questi ritardi rappresentano una vera e propria minaccia alla coesione sociale…». No, questa volta non si parla di “emergenze” più o meno reali, di attraversamenti più o meno “legali” delle frontiere, di prima accoglienza: una rete di organizzazioni della società civile europea denuncia con queste parole le difficoltà che 33 milioni di cittadini “extracomunitari”, regolarmente residenti nell’Ue, incontrano nel formarsi una famiglia o per farsi raggiungere dai familiari di cui hanno la responsabilità.
Il diritto alla famiglia? Non risente della congiuntura…
La rete, sotto il nome di CoordEurop (Coordination Européenne pour le Droit des Etrangers à Vivre en Famille, con sede a Bruxelles), nelle scorse settimane si è rivolta ai candidati delle elezioni europee con un appello aperto alla sottoscrizione dei cittadini.
«Malgrado gli innegabili progressi legislativi prodotti dalla Direttiva comunitaria sul ricongiungimento famigliare – si legge nell’appello – dobbiamo constatare che i diritti di queste persone (i migranti regolari residenti, ndr) rimangono assoggettati alle vicende aleatorie delle politiche nazionali sull’immigrazione».
Così, i firmatari chiedono «un cambiamento dell’approccio politico: il diritto a vivere in famiglia è un diritto universale e la sua applicazione non può essere subordinata alle variazioni congiunturali e contingenti della politica degli Stati».
La denuncia e la richiesta di CoordEurop sono sostenute dai risultati di un’indagine che il Coordinamento ha svolto fra le organizzazioni associate, e dalla quale emergono una serie di difficoltà ricorrenti in diversi Paesi dell’Ue riguardo al ricongiungimento famigliare.
Innanzi tutto, il periodo di attesa e i costi sostenuti per portare a termine la procedura di ricongiungimento, che si protrae talvolta sino a più di due anni. Ma anche le condizioni legate all’abitazione richieste agli stranieri dei Paesi terzi: queste infatti rispondono a criteri di qualità superiori a quelli richiesti ai cittadini (ad esempio, si arriva a prescrivere una camera per ogni figlio!).
Ancora, «le risorse finanziarie richieste in termini di reddito talvolta non sono dimostrabili da parte del richiedente: la grave crisi economica che l’Europa vive attualmente accresce il fenomeno di un’economia informale cui devono sottostare soprattutto gli immigrati, in particolare nel settore dei servizi».
«Le misure di integrazione richieste prima del ricongiungimento stesso (ad esempio, l’obbligo di una conoscenza di base della lingua del paese di destinazione) sono discriminanti e vessatorie se mancano le condizioni per accedervi».
Inoltre: gli obblighi di coabitazione – sino a tre anni in alcuni Paesi – non danno la possibilità di separazione (tranne in caso di maltrattamenti denunciati). Spesso è difficile o impossibile ricongiungere i minori che sono in carico per via di particolari misure di affido o tutela (ad esempio la kefala), quando la tutela dell’interesse preminente e superiore del minore dovrebbe «diventare una pratica consolidata in tutti i Paesi, senza bisogno di fare ricorso alla Corte di giustizia perché sia rispettato».
I dinieghi alla visita di un famigliare fanno sì che oggi «è praticamente impossibile che un nonno, un figlio maggiorenne, un fratello o una sorella di un residente extracomunitario possano ottenere un visto anche solo per una visita di breve durata».
Ma non si possono dimenticare le indagini sistematiche e intrusive prima e dopo il matrimonio da parte della pubblica amministrazione per quanto riguarda le “coppie miste” (una pratica che si sta consolidando nei Paesi dell’Ue, nel contrasto dei matrimoni di convenienza). Mentre le unioni registrate ufficialmente in un altro Paese ma che non sono equiparate al matrimonio non sempre danno accesso al diritto di ricongiungimento famigliare del partner e dei suoi figli o ascendenti.
Rifugiati, corsia di “favore”
Infine, una recisa richiesta-precisazione: «Le disposizioni più favorevoli relative ai rifugiati devono essere applicate in ogni caso, indipendentemente dalla data in cui i legami famigliari si sono consolidati o hanno avuto origine».
A margine del documento, tuttavia, CoordEurop ha precisato di recente: «Il 3 aprile 2014 la Commissione europea ha pubblicato le Linee guida per l’applicazione della Direttiva sul ricongiungimento famigliare: se applicate da parte degli Stati potrebbero attenuare in parte le difficoltà che abbiamo messo in evidenza con il nostro appello».
Fra primi i firmatari per l’Italia dell’appello di CoordEurop ci sono la Fondazione Migrantes e l’Ufficio pastorale migranti di Torino.
Collegamento
L’appello e i risultati dell’indagine (file .pdf)
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