Intervista con una delle autrici della prima indagine nazionale sull’impatto del sistema di accoglienza straordinaria nei comuni italiani. Alla base della ricerca, una procedura di “accesso generalizzato” indirizzata alle 106 Prefetture italiane, in mancanza di dati analitici centralizzati presso il ministero dell’Interno. Per districarsi fra i dati, giunti nei formati più diversi, è stato necessario rivolgersi a un data engineer.
«Con l’approvazione del decreto migranti, viene modificata nuovamente la struttura normativa che disciplina il sistema di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in Italia. Il nuovo decreto contiene diversi passi in avanti e molti aspetti ancora fortemente critici. Fa riflettere tuttavia come al Parlamento sia richiesto di deliberare su un provvedimento di questa portata senza al contempo fornire a deputati e senatori, così come a tutta la società civile, gli elementi necessari per comprendere pregi e difetti del sistema in vigore».
La fondazione Openpolis presentava così, una settimana fa (qualche giorno prima dell’approvazione definitiva della conversione in legge del DL 130), la nuova indagine sull’impatto del sistema di accoglienza straordinaria nei comuni italiani realizzata dal CefES dell’Università di Milano Bicocca.
Anche se offre dati aggiornati fino al 2019, questa analisi si è concentrata sul sistema di accoglienza tra il 2014 e il 2017, quindi sul periodo che ha preceduto il decreto sicurezza n. 113 del 2018. Il presupposto che ha guidato il gruppo di lavoro è che per disegnare nuove politiche pubbliche bisogna conoscere gli effetti delle politiche precedenti, «in modo da poter intervenire in maniera mirata e consapevole per migliorarle».
L’indagine, la prima in Italia di portata nazionale su questi aspetti, è firmata da Mariapia Mendola, ordinaria di Economia politica alla Bicocca, da Francesco Campo e da Sara Giunti del medesimo ateneo, ma è stata realizzata anche con la collaborazione di Openpolis e di ActionAid.
Mariapia Mendola, da Milano, ha risposto alle domande di Vie di fuga.
Professoressa Mendola, perché avete scelto di focalizzarvi sui Centri dell’accoglienza straordinaria (CAS)?
«Il sistema CAS è stato, ed è tuttora, il principale sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Italia. Nasce nel 2014 come ‘straordinario’ per far fronte ai flussi di migranti e richiedenti asilo arrivati sulle nostre coste durante la cosiddetta “crisi Europea dei Rifugiati” fra 2014 e 2017. Tuttavia da ‘straordinario’ diventa presto un sistema ordinario, avendo ospitato fino ad oggi circa l’80% dei richiedenti asilo. Il sistema pubblico esistente in Italia è lo SPRAR (poi SIPROIMI), che però in quegli anni (e tuttora) non si è ampliato a sufficienza per far fronte alle richieste di accoglienza. Il sistema dei CAS, quindi, ha di fatto sostituito lo SPRAR, ma il problema è che nessuno ha mai valutato costi e benefici di questo sistema, finanziato centralmente e gestito da privati in una logica perennemente emergenziale».
Valutare costi e benefici a livello nazionale: è possibile farlo?
«La nostra analisi va proprio a colmare questo gap. Per prima cosa abbiamo raccolto tutti i dati amministrativi relativi ai CAS, dati che il ministero dell’Interno non ha mai utilizzato in modo trasparente e dettagliato per descrivere (né tantomeno valutare) il sistema di accoglienza. In secondo luogo, analizziamo le conseguenze economiche e politiche del sistema CAS, tenendo conto che questo è stato implementato a ridosso delle elezioni politiche del 2018. Poiché la caratteristica principale dei CAS è stata la dispersione dei richiedenti asilo sul territorio (secondo un Piano nazionale di riparto), ci chiediamo se questa politica sia stata efficace per distribuire costi e benefici dell’accoglienza, e per ‘placare’ eventuali reazioni ostili da parte delle comunità ospitanti».
Quali sono i risultati del vostro lavoro, professoressa? Ma anche: questi risultati possono dare qualche suggerimento alla politica nazionale, agli amministratori locali e agli operatori dell’accoglienza?
«I nostri risultati mostrano che l’accoglienza diffusa da sola non è sufficiente a integrare i richiedenti asilo sul territorio. È necessario valutare in modo più accurato come distribuire i rifugiati sul territorio, in base ad esigenze demografiche ed economiche, e accompagnare la diffusione con politiche di sensibilizzazione dei residenti oltre che di integrazione dei rifugiati. Queste politiche di sviluppo possono essere gestite meglio dalle amministrazioni locali, che possono trovare nell’accoglienza un investimento positivo per il loro territorio».
Al di là del significato sociale e solidale dell’accogliere persone in fuga, che cosa avete osservato sul rapporto costi-benefici da un punto di vista economico? Dell’argomento si sono occupate finora solo ricerche a livello locale, come quella dell’Euricse di Trento.
«Le nostre analisi mostrano che ospitare richiedenti asilo a livello comunale non comporta costi economici significativi di breve periodo. Al contrario, si osserva che la dispersione dei richiedenti asilo ha favorito un effetto di ‘ripopolamento’ nei comuni con una più alta concentrazione di anziani. Non ci sono effetti significativi nemmeno sulla spesa pubblica comunale, se non un effetto positivo sulla spesa per il personale. I risultati, tuttavia, mostrano che la presenza di richiedenti asilo ospitati nei centri CAS ha avuto un effetto politico».
In quale direzione?
«Ha favorito un piccolo spostamento del consenso elettorale verso i partiti di destra (Lega e Fratelli d’Italia) nelle elezioni del 2018. Questo è avvenuto soprattutto nei piccoli comuni con meno di 25 mila abitanti. Ciò suggerisce che l’accoglienza diffusa va gestita, curata e spiegata con politiche di integrazione e sviluppo non emergenziali, possibilmente da parte delle amministrazioni comunali».
Per tornare all’aspetto economico, voi avete osservato una “perdita” dello 0,31% di reddito pro capite nei territori dove la presenza di richiedenti asilo cresce dell’1%: è un dato significativo? Accogliere significa comunque “pagare un prezzo”?
«No, non è un effetto economicamente significativo. Perlopiù è spiegato da un cambiamento nella composizione della popolazione locale nei paesi con una maggiore concentrazione di anziani. In altre parole, i rifugiati che non percepiscono reddito vanno a sostituire persone anziane che percepivano reddito. Tuttavia le conclusioni di policy suggeriscono che è necessario integrare anche economicamente i richiedenti asilo, in modo da favorire sia la loro inclusione sociale, sia lo sviluppo locale. L’accoglienza diffusa deve essere accompagnata da strategie di investimento di più lungo periodo».
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