Sull'”Espresso”, la testimonianza di un richiedente asilo bloccato in uno squallido campo di tende a Samo: se il coronavirus penetrasse nel campo, «dove potremmo nasconderci? Come proteggeremmo i bambini, gli anziani? Non potremmo, tutto qui. E in questo non c’è molta differenza rispetto alle sorti degli afgani in Afghanistan. Qui certo non ci sono autobombe, ma ugualmente se ci ammalassimo aspetteremmo di morire, credo. La differenza è che siamo in Europa».
«Il virus in cui viviamo ogni giorno si chiama in un altro modo, non uccide con la polmonite, ma ci sta uccidendo piano piano, perché ci ha reso animali». A Wahid Rahimi, richiedente asilo afgano bloccato a Samo, in Grecia, Francesca Mannocchi dell’Espresso ha chiesto che cosa significa per lui l’ansia, il timore di un contagio da coronavirus nel campo di tende in cui l’Unione Europea lo ha relegato.
Wahid ha spiegato la sua risposta spiazzante così: «Non abbiamo elettricità, perciò non abbiamo acqua calda. Ci laviamo tutti – e tutti significa uomini donne e bambini – con l’acqua fredda fuori dalle nostre tende. Ogni giorno ci mettiamo in fila per un pezzo di pane e, se siamo pazienti, cioè se nessuno grida e litiga, riusciamo a portare un pasto in tenda. Ma per il dottore non c’è nessuna fila. Bussiamo alla porta della responsabile del campo e ci dice che non ci sono medici, semplicemente non ci sono. I più fortunati riescono a trovare degli antibiotici per i bambini, che quando piove si ammalano, hanno la tosse, non respirano di notte e quando si fa buio e qui non c’è altro che silenzio sentiamo solo bambini e vecchi tossire. Camminiamo nelle acque di scolo, i bambini giocano in mezzo ai topi. I bagni sono pieni di escrementi. L’acqua delle docce, quando funzionano, è inquinata. I bambini talvolta bevono acqua tossica e soffrono di diarrea. Questo campo è già un virus».
“Che cos’è la felicità delle persone?”
Così, se mai il COVID-19 penetrasse nel campo, «dove potremmo nasconderci? Come proteggeremmo i bambini, gli anziani? Non potremmo, tutto qui. E in questo non c’è molta differenza rispetto alle sorti degli afgani in Afghanistan. Qui certo non ci sono autobombe, ma ugualmente se ci ammalassimo aspetteremmo di morire, credo. La differenza è che siamo in Europa».
Nel suo Paese Wahid era un agente di polizia. È fuggito dopo essere stato minacciato più volte dai taliban e aver venduto tutto quello che aveva.
«Sono qui da cinque mesi e ancora provo a lavarmi, a farmi la barba, a restare pulito come un uomo degno. Ma sento che sto perdendo la speranza», dice ancora.
E poi: «Prendetevi il tempo di avere paura per la vostra salute e per quella dei vostri cari, ma pensate anche a chi come noi non ha informazioni, né acqua, né tanto meno medicine. Non siamo arrivati qui per minacciare la vostra società, la vostra cultura. Siamo arrivati qui perché la felicità delle persone è in fondo una cosa semplice, e spesso significa un tetto, un pasto caldo, non avere paura di essere uccisi. Ora siamo qui e non possiamo fare né un passo avanti, né uno indietro. Se potete, pensate anche a noi».
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