L’ultimo rapporto europeo sul “reinsediamento” dei rifugiati nei Paesi dell’UE solleva una questione finora trascurata, quella del loro inserimento nei nuovi territori che li accolgono. E offre utili indicazioni ai Paesi membri.
L’ultimo rapporto dell’Europarlamento sul “reinsediamento” dei rifugiati in Europa (Comparative study on the best practices for the integration of resettled refugees in the Eu member States, vedi news precedente) riconosce che il Programma congiunto dell’Ue per il reinsediamento adottato un anno fa, nella primavera 2012, costituisce un importante passo in avanti, ma evidenzia anche tutti i limiti del resettlement “all’Europea”.
«Mentre gli sforzi si sono concentrati sulla necessità di accrescere il numero di rifugiati reinsediati in Europa – scrivono i curatori –, si è prestata scarsa attenzione alla questione dell’integrazione di questi rifugiati e alla sostenibilità di questi programmi. Ciò è legato al fatto che, in generale, in Europa si è prestata scarsa attenzione all’integrazione di tutte le categorie di rifugiati».
Presentando i risultati della loro indagine, inoltre, i curatori del rapporto segnalano che in Europa (e non solo) mancano ancora standard condivisi per l’integrazione dei rifugiati reinsediati; che i programmi a loro rivolti per avere successo devono offrire, tra l’altro, permessi di soggiorno a lungo termine; che la “selezione” a monte di rifugiati per il resettlement secondo il loro “potenziale di integrazione” rischia di abbandonare a se stessi i rifugiati più a rischio (del resto, è ormai «largamente provato che anche i rifugiati partiti nelle condizioni di più grave vulnerabilità e svantaggio possono integrarsi con il giusto appoggio. Qui, perciò, diventa di cruciale importanza lavorare sulle capacità di integrazione dei territori di accoglienza»); infine, che programmi di resettlement regolari, dotati di fondi adeguati e inquadrati in un programma nazionale stabile hanno maggiori probabilità di successo.
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